Diane Arbus: fotografia del diverso

Molti suoi contemporanei hanno visto la Arbus solo come una fotografa di mostri, disinteressata, distaccata e senza compassione. Per Diane Arbus, nascere in una ricca famiglia (i suoi possedevano un palazzo affacciato a Central Park e un negozio dove i più ricchi newyorkesi facevano i loro acquisti di moda) e crescere senza nessuna avversità saranno sempre motivi di giudizio e colpa.

Ma la fotografia della Arbus, in realtà, mirava a normalizzare le persone che vivono ai margini della società. L’artista non vedeva nulla di repellente o sbagliato in questi “mostri”, Freaks, come venivano chiamati, ma anzi riusciva a trovare in loro quelle imperfezioni che sentiva come bellezza e umanità.

Agli esordi della sua carriera tenta un percorso di fotografia commerciale per il mondo della moda, realizzando assieme al marito alcuni scatti che finiranno anche su Vogue. Presto, però, l’insoddisfazione la riporta sui suoi passi.

Nel 1956 Diane studia presso la street photographer Lizette Modell, che le insegna ad avere più confidenza in sé stessa e le ispira il percorso fotografico che la donna vorrebbe realizzare: (qui sotto, foto di Lizette Modell)

Se la Modell è la miccia per l’ispirazione della Arbus, è il fotografo tedesco August Sander ad ispirarle il metodo di composizione. Sander approcciava i suoi soggetti con un misto di sensibilità e obiettività sociologica: (qui sotto, foto di August Sander)

Diane utilizza un’inquadratura più ampia, con l’effetto di ottenere una maggiore chiarezza e un formato delle foto più quadrato, il quale la contraddistinguerà. Per la Arbus, la fotografia è un segreto su un segreto. Con i suoi scatti ritrae allo stesso tempo il coraggio, la tenacia e la vulnerabilità.

I soggetti scelti dalla fotografa non erano una particolare novità. Si trattava di sottoculture già documentate: bodybuilders, giovani criminali, nudisti, artisti del circo, persone affette da nanismo, trasgressivi delle “norme sociali”. La differenza che emerge con i predecessori è la quantità di tempo che Diane spende con i soggetti che fotografa e i rapporti che crea con loro durante il processo.

Per la Arbus, una grande parte della fotografia non è la foto stessa ma l’avventura e l’esperienza vissuta nell’ottenerla. Questo concetto mi ricorda le sensazioni che ho provato anche io durante il periodo dei miei primi scatti, quando una grande parte delle sensazioni che sentivo di voler comunicare in quelle foto si trovavano in realtà fuori dall’inquadratura, nel “momento ineffabile” che non poteva essere congelato dalla macchina fotografica.

La critica, comunque, diede alla Arbus dell’insensibile, specialmente a livello estetico nei confronti dei suoi soggetti, proprio perché l’artista si focalizzerebbe troppo sulle imperfezioni umane e sul loro senso di delusione, approfittando della sua posizione di vantaggio e del suo privilegio sociale per distanziarsi da soggetti che in realtà, secondo le critiche, causerebbero pena e repulsione.

Diane Arbus possedeva forse una tristezza interiore che rivedeva in alcuni dei suoi soggetti e una sensazione di solitudine che cercava di catturare in tutti. Secondo le fonti, la fotografa lasciava ai propri soggetti la possibilità di presentarsi come meglio volessero. Per lasciar loro spazio e non invadere quell’intimità e quella confidenza che voleva catturare, utilizzava una fotocamera con ground glass (in italiano, mirino a pozzetto) che le permetteva fondamentalmente di guardare la scena con gli occhi in basso, verso il pavimento, e di comporre lo scatto agevolmente senza tenere la macchina fotografica di fronte al viso come una sorta di muro per nascondere la faccia del fotografo ai soggetti. Invece, in questo modo poteva tenere la camera più in basso, alzare lo sguardo per interagire con le persone, suscitando una diversa reazione e una diversa intimità che non è possibile guardando la scena da riprendere attraverso un mirino tradizionale.

Diane era dell’idea che se non avesse fotografato le cose che vedeva come le vedeva queste non sarebbero mai esistite per nessun altro. Il suo stile è caratterizzato da un intenso realismo e una profonda empatia per i soggetti e le sue foto miravano a catturare lo spazio tra chi è una persona e chi pensa di essere. La sua carriera però non decollò mai totalmente, e nel luglio del 1971 la fotografa si tolse la vita. Aveva 48 anni.

L’impatto della sua fotografia ha influenzato non solo i fotografi ma gli artisti di almeno tre generazioni successive. Due sono le sue foto più famose: la foto del bambino con la granata giocattolo, che è diventata un simbolo riconosciuto ancora oggi e si dice sia anche stata l’ispirazione per il personaggio di Bart Simpson; è la foto delle bambine gemelle, che avrebbe ispirato il regista Stanley Kubrick per l’iconica scena del film Shining.

Nell’ultima fase della sua carriera, il Metropolitan Museum of Art di New York le chiese di poter acquistare questi scatti, pagandoli 75 dollari l’uno. Una stampa della foto del bambino, nel 2015, venne venduta per 700 mila dollari.

Un anno dopo la sua morte, nel 1972, Diane Arbus divenne la prima fotografa ad essere inclusa alla mostra della biennale di Venezia, decretandone finalmente la sua fama.

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