Contro la violenza sugli animali nell’Arte.
Uccidere in nome dell’Arte. Visitando la Künstlerhaus di Vienna (la casa degli artisti) c’è la possibilità di sollevare alcune domande sulla sensibilità etica di un’artista e dell’organizzazione che lo espone all’interno della mostra “Wunderkammer”. Si tratta di considerazioni relative alla violenza che toglie la vita a un animale in favore dell’arte e, forse, al fallimento stesso dell’arte contemporanea causato dalla continua ricerca dello shock. Ma bisogna che io vada per gradi.
Per quanto limiti ed elementi legali dell’arte, un esempio su tutti quello del diritto d’autore, siano in pratica soggetti a leggi diverse in ogni Stato di diritto, oserei dire che l’Arte resta comunque un concetto universale. Ciò per dire che idee, correnti e considerazioni vecchie e nuove possono influenzarsi a vicenda anche a grande distanza, secondo la sensibilità e i gusti del tempo. A tal proposito voglio portare all’attenzione le linee guida della College Art Association, la principale organizzazione degli Stati Uniti che riunisce al suo interno professionisti delle arti visive, da studenti a emeriti, adottate dal suo consiglio direttivo a partire dall’Ottobre del 2011.
Tra gli autori di questo documento troviamo Paul Jaskot, Codirettore del laboratorio di storia dell’arte digitale e cultura visiva della Duke, presidente del CAA dal 2008 al 2010 e professore di storia dell’arte; Wayne Enstice, professore emerito di belle arti e direttore dal ’95 al 2000 della School of Art di Cincinnati; Michael Golec, professore associato e ricercatore di teoria e storia dell’arte a Chicago; Ellen Levy, artista e curatrice americana con un curriculum nel mondo dell’arte di oltre 40 anni; Marlena Novak; Bernard Rollin, filosofo e professore emerito di Filosofia, Scienze biomediche e Bioetica della Colorado State University che per tutta la vita ha promosso il dialogo tra intellettuali per la messa in discussione del nostro modo di trattare gli animali; Kristine Stiles, storica dell’arte contemporanea specializzata in arte sperimentale, dall’arte concettuale e performativa fino all’arte violenta, traumatica e distruttiva.
Il testo afferma che “Molti ambiti delle arti visive utilizzano soggetti animali — dalle fotografie scattate nell'ambiente naturale, all'uso di materiali derivati da sottoprodotti animali, all'uso di animali vivi in una performance” e sottolinea che “Gli artisti e altri professionisti delle arti visive devono essere liberi di esplorare tutte le possibilità espressive affinché l'arte mantenga un ruolo vitale nella società umana” tuttavia a questa espressione si accompagna anche una responsabilità etica quando utilizzano animali nelle loro opere. L’associazione non approva opere che causano crudeltà verso gli animali e invita gli artisti e i professionisti delle arti visive a riflettere attentamente sull’uso degli animali, dato che essi non hanno il diritto e non sono capaci di rifiutarsi. Viene quindi stilato un elenco di considerazioni che si invita a seguire, tra le quali:
Evitare di causare angoscia, dolore o sofferenza fisica e psicologica nel corso della creazione dell’opera.
Considerare, in virtù dello stesso obiettivo artistico, possibili alternative all’uso degli animali.
Discutere qualsiasi pratica che potrebbe causare dolore o disagio ai soggetti animali e considerare le possibili alternative.
Fare delle ricerche sulla biologia del soggetto animale per comprendere gli aspetti della sua esperienza.
Tra chi ha voluto capitalizzare sulla violenza perpetuata sugli animali posso citare il franco-algerino Adel Abdessemed e il suo lavoro “Don’t Trust Me”, un loop video di sei animali che vengono presi a colpi di mazza e uccisi per il macello, che secondo quanto riportato dal comunicato stampa del San Francisco Art Institute inviterebbe gli spettatori a riflettere.
Secondo il curatore della mostra in Italia, “l’atto di violenza verrebbe commesso da altri e gli animali sarebbero comunque morti che l’artista fosse stato testimone dei fatti o meno”, e altri aggiungono che Abdessemed “stia solo cercando di tastare la realtà della violenza senza mediazione” in relazione all’artificialità della morte mostrata nel cinema. Mi limito a riportare qui la critica mossa da Giovanni Aloi, storico dell’arte specializzato in storia e teoria della fotografia, rappresentazione della natura e degli oggetti quotidiani nell’arte del School of the Art Institute di Chicago: “è ovviamente inaccettabile l’uccisione di un animale con una mazza, ma è invece moralmente accettabile filmare l’atto e ripetere l’uccisione all’interno dell’arena degli spazi esibitivi contemporanei?”. E io aggiungo, quanto è breve il passo da questa cosiddetta performance d’artista a quella della ragazza trentunenne di Amsterdam che mettendo in discussione il concetto di crudeltà ha soppresso il suo gatto spezzandogli il collo e con quello ci ha realizzato una borsetta?
Altri autori si sono posti domande simili. “Quand’è che un’opera d’arte che include la morte o la crudeltà di animali si considera non arte?” è stata una domanda a cui Marco Evaristti, ideatore dell’esibizione “Helena” che comprendeva 10 pesci rossi in 10 frullatori attivabili dal pubblico, si è astenuto. Quanto spazio hanno diritto, oggi, artisti che “uccidono le cose per guardarle” o che realizzano alcune di queste violenze ritenendo intrigante proprio il fatto che le loro sculture “si sarebbero potute realizzare con materiali già pronti”?
Vari artisti si sono già posti il problema etico sull’uso degli animali nell’arte, ma l’assenza di una regolamentazione che non vede punibile la pratica, quando genera violenza, relega fondamentalmente la questione di trovare soluzioni differenti alla sensibilità del singolo artista, il quale deciderà da sé se utilizzare animali già morti o uccidere specificatamente per la sua creazione, se includere la presenza di animali nella propria esibizione attraverso installazioni tassidermiche o tenendo in cattività nella galleria l’animale vivo. La freddezza dell’azione, la violenza e l’oppressione del potere dell’uomo sulle altre creature viene, nel caso di queste esibizioni pubbliche, giustificata dall’artista come “dichiarazione politica” e “provocazione” e viene celebrata da gallerie e curatori di arte contemporanea senza alcuna responsabilità. Se, come società, accettiamo che gli animali siano senzienti, allora la nostra percezione degli animali come esseri intelligenti, capaci di provare emozioni, di ragionare, di fare scelte e di valutare rischi” deve avere un forte peso nel considerare eticamente il problema dell’uso e dell’inclusione di animali, vivi o morti, nel processo di creazione e nelle esibizioni artistiche.
Che valore diamo alla nostra vita? È più facile accettare la propria condanna a morte se questa viene servita “umanamente”? Perché i teatri drammatici e cinematografici fanno grande successo già con creazioni di scena e sangue finto ma i teatri artistici di Hermann Nitsch hanno bisogno di inscenare la tragedia con carcasse, organi e sangue reali?
Sia per l’artista che per il pubblico, percepire la sofferenza può essere difficile all’inizio. Yvette Watt, docente della School of Creative Arts & Media per l’Università della Tasmania, sostiene che c’è una chiara differenza in come le persone percepiscono l’uccisione di animali per farne cibo e l’uccisione per un’opera d’arte e anche se le questioni etiche della primo caso sono ancora aperte ciò non nega il diritto di metterne in discussione il secondo; che il pubblico che protesta non ritiene che l’artista dovrebbe avere un permesso speciale per cose che metterebbero a disagio se fatte da qualcun altro.
Su citazione dello stesso Johannes Rass, la performance “Animal on Stage” comincia con l’abbattimento e la macellazione dell’animale scelto. Nelle scene proposte, l’abbattimento dei due animali viene proposto nel più recente video tramite l’utilizzo di una pistola a proiettile captivo non penetrante che fondamentalmente rompe il cranio dell’animale ma non lo uccide, anzi. L’animale cerca di sottrarsi al supplizio ma la tua testa è bloccata da un’inferriata. La mancata perdita di coscienza dell’animale mi induce a pensare che la causa sia l’inesperienza dell’operatore, cioè proprio l’artista improvvisatosi macellaio e forse stavolta improvvisatosi anche artista. La mucca subisce quindi un secondo colpo con un altro strumento, stavolta con proiettile captivo penetrante. Una volta a terra e probabilmente morta, il foro viene esplorato in ogni direzione con un lungo ferro che stimola ai nervi facciali dell’animale ulteriori spasmi. Nel video meno recente, l’abbattimento viene effettuato per elettroshock e sgozzamento, con l’animale che ancora grugnisce. Anche qui Rass non mostra nessun ripensamento o nessun dubbio, anzi per portare il maiale nel suo luogo di esecuzione lo spinge con le ginocchia e gli blocca la strada.
L’assenza di qualsiasi considerazione, da parte di Rass, sia sulle necessità di questo elemento ai fini della sua ricerca artistica sia sugli aspetti dell’esperienza dell’animale mi induce a pensare che ci troviamo di fronte a un caso di totale assenza di etica artistica. È stato fatto il necessario per evitare delle sofferenze? Poteva essere considerato, in alternativa all’abbattimento dell’animale, l’utilizzo di parti di animali già abbattuti e macellati? (sarebbe cambiato qualcosa per il risultato finale?)
Una volta macellate le parti e cucinate, gli animali vengono riassemblati attraverso uno strumento che funge da scheletro metallico e vengono quindi messi di fronte a uno sfondo nero per essere fotografati. Gli animali vengono infine consumati durante una sagra di paese o un banchetto di eletti, come in una sorta di rituale che però qui si presenta soprattutto in veste di occasione di ritrovo sociale, di festa, di degustazione. L’opera finale, mostrata al pubblico, consiste nelle fotografie stampate ed esposte in una stanza dalle pareti nere.
A primo impatto le immagini sembrano fantastiche. Piene di luce e sature di colori su uno sfondo così scuro, sembrano lo sforzo di un’artista che si è impegnato nel modificare un animale impagliato con elementi prostetici di scena, finti, artificiali. Decontestualizzate dal processo di produzione, il pubblico non percepisce inizialmente la sofferenza che vi si nasconde dietro. Una delle sue opere diventa il manifesto dell’esibizione della Wunderkammer, la camera delle meraviglie o delle curiosità, che ricalca la tradizione di collezionisti di oggetti straordinari che a partire dal rinascimento diventa fenomeno tipico del Cinquecento, sviluppandosi per tutto il Seicento e protraendosi poi fino all’Illuminismo del Settecento. E come da tradizione anche la Wunderkammer di Vienna viene allestita con tutti i Mirabilia del caso, naturalia e artificialia. Solo che le opere esposte con animali sono per lo più realizzate con materiali metallici, con ossa riconfigurate e legate per creare nuovi esseri, con animali impagliati o al massimo con rane essiccate prese in prestito da una lezione di vivisezione. I naturalia che si spingono oltre sono formati da una collezione di semi e una collezione di pelle di pesce scolpite a forma di palle.
E poi si arriva finalmente alla stanza nera. I 3 minuti di video mostrano in loop il processo di creazione della foto più grande, quella appunto della mucca, che lascia tristemente senza parole soprattutto di fronte al fatto che, un piano più sotto, è in mostra l’esibizione sulla diversità dell’Albertina modern che vanta di poter esporre opere al passo coi tempi e con il bisogno di rappresentazione delle comunità artistiche che solo recentemente hanno iniziato a ricevere attenzione.
Per chiudere, concludo con una domanda: la reazione dell’organizzazione, che ha dato l’ok per l’esposizione delle opere di Rass, e quella del pubblico, che non mi è sembrato abbastanza indignato dal progetto, sarebbero state diverse se per le fotografie dell’artista fossero stati scelti animali come cani o gatti, o addirittura altri esseri umani?